top of page

ELOGIO ALLA FATICA: COSA CI SPINGE A FARE TUTTO QUESTO?

Immagine del redattore: Francesco VerdinoFrancesco Verdino

“Erano le 6.30 del mattino quando l’ennesimo lampo di gelo m’attraversava, sentivo le ossa arrendersi come il bel tempo al volere dell’autunno, la cassa toracica, ormai vacua, tuonava di un profondo tremore, come avessi una falena incastrata sotto pelle e poi, poi i piedi, ma quali piedi?

Mi decisi ad aprire gli occhi per cercare di ammutolire quella sofferenza: al mio fianco dormivano due persone, due sconosciuti fino al giorno prima, tutto intorno a noi una tenda gocciolante d’umidità e in me, in me un bambino che mi pregava di tornare a casa. Erano le 6.31 del mattino quando, con la massima solennità, giuravo a me stesso e alla mia progenie che noi, gente di città, anime del cemento, non avremmo mai più cercato l’avventura, neanche su YouTube. Questa è roba per giovani incoscienti, gente che cerca la retta via per evitarla, gente che non ha bisogno di dormire per sognare, gente che gioca ad acchiapparella con la vita per viverla al massimo. Beh, io non mi chiamo Massimo e, quando gioco ad acchiapparella non vinco neanche con me stesso.”

Erano le 16.48 di due giorni dopo, quando, tornato a casa, colui che non si chiama Massimo si mise a pianificare il suo prossimo cammino.

Sorrido sempre rileggendo questi pensieri; trovo tremendamente spassoso che se venissero spacciati per il diario di un naufrago che parla coi palloni oppure per le memorie di qualche famoso esploratore con la camicetta beige, risulterebbero perfettamente credibili.

Li ho partoriti durante la Via degli Dei invece, nessun naufragio, nessuna camicetta beige (non è in palette con la mia armocromia), solo tantissimo freddo e un giovane in tutta la sua miseria. Ad ogni modo, gentili lettori, non è certamente questo piccolo cavillo storico il fulcro della questione. Sto scrivendo questo articolo per rintracciare quella componente che, due giorni dopo essermi trovato “naufrago”, mi ha spinto a tornare in mare. La risposta, o perlomeno quella che reputo più sensata, tratta di ingegneri, Einstein e ignudità.

Fatica: s. f. [lat. *fatiga, der. di fatigare «affaticare»]. – Sforzo materiale che si fa per compiere un lavoro o svolgere una qualsiasi attività, e di cui si sente il peso e poi la stanchezza - Instancabile compagna di viaggio, inesauribile forza generatrice di nuove imprecazioni, infidamente celata nella quotidianità di un risveglio all’alba, si rivela in tutta la sua pomposa magnificenza quando in natura, tra ripidi pendii e orizzonti sempre troppo lontani. La fatica però, è preziosa. Sapete, nell’ ambito delle tecnologie dei materiali, essa è da intendersi come il progressivo lavoro che danneggia un materiale fino a spezzarlo: forse, per una volta, mi tocca dar ragione agli ingegneri.



Quando la fatica agisce su di noi, come la goccia consuma la roccia, essa ci spoglia, poco a poco, inesorabilmente, della città. Una volta a terra, i vestiti pregni dell’olezzo dei palazzi, ci consegnano alla nudità, il punto di rottura. La roccia ormai esausta si è crepata lasciando entrare la luce e così, i nostri cuori ignudi, tornano a sentire il mondo, protesi verso la spontaneità dell’incontro con un animale, un fiore o chissà, un altro cuore. In cammino la vita ci pare più reale, più viva, non perché effettivamente migliore, ma per il modo in cui guardiamo ad essa. Ricordo le parole di un famoso psicoterapeuta, il quale sosteneva che la miglior forma d’ascolto venisse dagli psicologi perché, contrariamente ai nostri affetti, non si aspettano nulla da noi, ogni parola è una scoperta. Immagino possa suonare spigolosa quest’affermazione, ma vi esorto a prendervi un secondo per riflettere sull’ultima volta che, senza essere a teatro, avete ascoltato qualcuno integralmente, senza aspettative, senza nulla da dire, per il puro piacere di scoprirlo. Quest’apertura al libero bighellonamento del momento, all’audace curiosità che ci monta, ai mille tramonti che custodiamo, a questa puzza di vita che ci intasa le narici (perché la natura puzza principalmente), la dobbiamo alla fatica che ci costringe all’autenticità.

Rabboniti gli ingegneri, andiamo a bussare alla porta dei fisici scomodando il buon Einstein e la sua relatività. Tutti avrete sentito parlare di spazio-tempo nella vostra vita, ma non tutti vi sarete domandati che ne è di voi in questa dimensione, in che modo la occupate, in che modo la indossate.

Vi chiedo di immaginare la dimensione spazio temporale come un vestito: alle volte caldo e largo come un maglione oversize, altre stretto e freddo come la maglietta del pigiama di quando avevamo tredici anni. Crescendo, evolvendo, abbiamo la necessità di rimodellare questo indumento e, come sopracitato, il pigiama di quando avevamo tredici anni non andrà più bene per tenerci al caldo quando ne avremo venticinque. Quante volte avete sentito frasi del tipo: “ho bisogno del mio spazio” o “devo prendermi del tempo”, erano tutti rimodellamenti delle maniche di questo maglione. Ebbene, questa storia del maglione ha funzionato ottimamente fino ad inizio novecento, quando, con l’avvento delle grandi rivoluzioni tecnologiche, la società delle masse, lo sviluppo dei mezzi di trasporto, ci siamo dimenticati di un passaggio fondamentale: il maglione, corto o largo che sia, dev’essere pensato per l’essere umano.

Mi spiego meglio: pensate a com’è cambiato il modo di percepire distanze (spostamenti nello spazio/tempo) con gli aerei che ci teletrasportano da un luogo ad un altro. A piedi come sarebbe stato? O i tempi di lavoro, connessi al globale, senza fuso ne orario. Se esistessero ancora il giorno e la notte? O ancora, la bellezza sui social. E se fosse ancora possibile avere un fiore preferito per tutta la vita? Forse non sto parlando di fiori. Il maglione ha perso le maniche. La fatica però, ingegnosa sarta di umanità, può restituirgliele. Si perché quando camminiamo siamo circoscritti alla natura e al corpo: le gambe ci fanno male, la luce del sole illumina per un determinato lasso di tempo, la fame guida le nostre pause, le stagioni dettano i tempi. La fatica è preziosa, ci impedisce di fare il passo più lungo della gamba, ci tiene ancorati alla nostra dimensione di uomini e, in quanto tali, ci restituisce i nostri limiti, il nostro peso. La fatica custodisce lo spazio e il tempo. La fatica ci spezza, ci veste e ci presenta al mondo: d’innanzi a lei siamo tutti figli dello stesso scarabocchio, per questo è così semplice stringersi in cammino, conoscersi e mostrarsi.

“Cara progenie, no! Non ho acchiappato me stesso e no! Ancora non mi chiamo Massimo. Ci sono andato molto vicino però. Ho scoperto il colore del suo maglione, ho sentito il peso del suo corpo, l’acredine del suo sudore, l’eco delle bestemmie e ogni volta che mi sembrava di essere lì lì per acciuffarlo, mutava, dissolvendosi nella notte.Una sera, con uno stratagemma, riuscii ad imprigionarlo e lo guardai in faccia: Dio solo sa lo spavento che mi presi. Era brutto brutto!Anzi bruttino di quelli tipo i funghi! Non ho mai sentito nessuno dire che la sua pianta preferita sono i funghi. Anzi, brutto al punto giusto, quel brutto che piace insomma, va beh... era accettabile.

Smisi di cercalo e, quando fu giorno, non avendo più niente da cercare, scoprii che i fiori sono belli e che tra questi, uno, uno soltanto, mi è il preferito.”



Scritto da Ivan Angeli e no, non mi chiamo Massimo.

 
 
 

Comments


©2020 di The South Adventures

P.IVA 11551080960

Via Milano 166 Cologno Monzese 20093 - Italia

bottom of page